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Le virtù teologali

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Siamo le virtù teologali, la fede, la carità la speranza. Ci vedi rappresentate nell’affresco attribuito a Cenni di Francesco, un allievo di Andrea Orcagna piuttosto attivo a San Miniato verso la fine del 1300. Siamo le tre figure in alto, con la croce, la fiamma e il volto santo. Abbiamo le ali perché siamo intelligenze angeliche. La nostra posizione all’interno della gerarchia celeste la puoi vedere bene se, all’interno del battistero del Duomo di  Firenze, guardi in alto. Coppo di Marcovaldo, in un bellissimo mosaico, ci ha raffigurato nella seconda gerarchia angelica: meno potenti dei Cherubini e dei Serafini, più potenti degli angeli e degli arcangeli. Non esistevamo precisamente nella mente della gente prima che S. Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, ci nominasse e ci definisse. Nel medioevo i nostri segni di riconoscimento variano un po’: un crocifisso come nel nostro caso per la Fede (altrimenti un fonte battesimale), la fiamma o un pane o un calice per la Carità, un ramoscello di olivo o, come nel nostro affresco, il volto santo per la Speranza. Anche i colori delle nostre vesti cambiano, di solito la Speranza veste di verde, la Fede di bianco, la Carità di rosso. Cenni di Francesco ci ha invece vestite di colori differenti, ma non è stato certo l’unico. Insieme alle nostre sorelle, raffigurate sotto di noi, accanto alla Madonna, abbiamo ispirato le azioni di buon governo del Vicario fiorentino Luigi Guicciardini che ci fece dipingere nel 1393.

Le virtù cardinali

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Siamo le virtù cardinali, la Giustizia, la Prudenza, la Fortezza e la Temperanza; come le tre Virtù sopra di noi ispirammo il buon governo del Vicario Guicciardini. La nostra è una lunga storia, già Platone parla di noi (Repubblica, 47a) e poi Cicerone (De Officiis, I,5). E’stato Sant’Ambrogio che ci ha trasportate nel mondo Cristiano, nel IV secolo dopo Cristo. Anche noi abbiamo le ali perché, come le nostre sorelle, siamo intelligenze angeliche della seconda gerarchia. Nel Medioevo siamo state spesso raffigurate accanto alle immagini dei re, a guidarne le azioni, o alla Madonna in trono, come qui a S. Miniato. Il nostro affresco è uno dei pochissimi che ci raffigura insieme alla Fede, alla Speranza e alla Carità. I nostri segni di riconoscimento sono la bilancia e la spada per la Giustizia, uno specchio per la Prudenza, la spada e la corazza per la Forza, le ampolle dell’acqua e del vino per la Temperanza. La Giustizia tiene la bilancia perché misura esattamente i pesi delle colpe ed applica imparzialmente con la spada le giuste pene; la Prudenza guarda nello specchio perché con esso vede alle sue spalle; lo specchio allude anche a un passo del Libro della Sapienza che dice: “La Sapienza è uno splendido riverbero della luce eterna, specchio puro dell’attività di Dio, immagine della sua bontà” (Sap. 8,26); La Forza, la fermmezza nell’agire, è comprensibilmente armata per poter combattere contro il male; la Temperanza, la capacità di non eccedere, la dote del giusto equilibrio, mescola con criterio il vino e l’acqua delle ampolle.

Galileo Chini

Sono Galileo Chini. Non mi vedi ma in questa sala c’è la mia firma; è in basso, a metà della parete sinistra. Come intuisci ero pittore ma ho lavorato bene anche la ceramica, ho disegnato mobili, manifesti pubblicitari e molto altro; ho collaborato anche con Giacomo Puccini; l’ultimo impegno che ho preso col Maestro è stato quello per la scenografia di Turandot, quell’opera piena di cose esotiche d’oriente. Ero il più adatto per quel lavoro; nessuno in Europa conosceva l’Asia come me: ho passato anni a decorare il palazzo del re del Siam, del re di quella terra che oggi si chiama Thailandia. Dicono che là abbia imparato la linea sinuosa e l’uso ardito del colore per cui son diventato l’artista più apprezzato del Liberty italiano. La mia carriera di pittore è cominciata in questa sala; mio zio aveva avuto l’incarico di restaurare le antiche pitture ma la sua morte improvvisa mi rese l’unico artefice di questa impresa. Ero giovane, poco più che apprendista, ma la mia mente spaziava lontano, verso forme che solo intuivo ma che volevo produrre con tutto il mio spirito; il lavoro, qui, a volte era un po’ ripetitivo, lo zoccolo da dipingere in finto marmo enorme, con pennellate sempre uguali…allora, non mi potevo proprio trattenere, discretamente, con gli stessi colori che usavo per il marmo, un po’ più tenui, un po’ meno medievali, lì un leone, di qua un fiore, poi dei volti femminili, infine un pavone…; non si vedono al primo sguardo, sono stato bravo a nasconderli un po’ (chissà se mi avrebbero pagato se se ne fossero accorti…), non sono proprio riuscito a trattenermi. Il pavone poi, l’ho dipinto spesso in seguito, mi piaceva per gli infiniti colori e la mutevolezza della sua coda, per i suoi richiami simbolici, per la morbida linea con cui si disegna: un animale perfetto per una perfetta Allegoria della Pittura.