Museo Casa Carducci: breve storia

Divenuto museo nel 2003, l’edificio, al civico 32 dell’omonima via, fu l’abitazione in cui visse la famiglia Carducci dal 1856 al 1858: vi abitarono il dottor Michele, medico del paese, con la moglie Ildegonda Celli ed i loro due figli Dante e Valfredo. Il primogenito Giosuè era professore di retorica al Ginnasio di San Miniato ed ogni sabato, tornando in famiglia, percorreva a piedi i 18 km che separavano i due centri. Non essendo più presenti gli arredi originari, oggi la casa ospita la collezione pittorica “Tenero Gigante” di Antonio Possenti, il quale ha dedicato le sue opere alle poesie del grande Giosuè. Caratterizzate da uno stile sospeso tra uno sguardo sognante e una minuziosa attenzione verso la realtà, le opere inquadrano il Carducci in un’ottica dalla quale affiorano affetti familiari, amori, visione intima della natura.

Opere in evidenza

La Beata Diana Giuntini

Esposto nella sala 1, il dipinto, ispirato all’ode che Giosuè compose nella Pasqua del 1857 in onore alla Beata Diana Giuntini, Patrona del paese, è un vero cammeo dedicato alla giovane ragazza, ricolma di rose e gigli che rimandano al celebre miracolo della trasformazione del pane in fiori. Il dipinto è dominato dalla presenza della Beata che protegge Santa Maria a Monte, luogo della casa del poeta. Nella fascia in basso si collocano due rimandi alla biografia di Diana: a sinistra è  ritratta all’interno di una stanza scura, allegoria dell’eremitismo che contraddistinse la sua vita; a destra il giglio, simbolo di una condotta casta e pura. Sullo sfondo si riconosce Santa Maria a Monte, dove arride i fortunati clivi perenne l’aprile. Forte emerge il rapporto della Patrona con il paese che la vide nascere: l’osservatore è invitato ad entrare nel borgo per venerarla. Anche la natura pare avere questa tensione: complice la stagione primaverile,  tutto viene ritratto in un tripudio festoso di fiori e di vita, come se fosse in una trepidante attesa della presenza salvifica della Beata, celebrata nelle sue due virtù più grandi, la carità e l’umiltà.

Funère Mersit Acerbo

L’opera si riferisce al sonetto che Carducci compose nel 1870 per il figlioletto Dante morto in tenera età. In tutto il componimento domina l’oscura immagine della morte (l’ombra che avvolge): il poeta prega l’anima del fratello Dante, morto anche lui precocemente, di accogliere il figlio nell’aldilà. Il fratello di Giosuè, infatti, trovò la morte proprio in questa casa, in circostanze non chiare: si tramanda infatti che Michele, durante una delle ennesime liti, colpì con un bisturi il figlio, uccidendolo, il 4 novembre 1857. Dante venne così fatto passare per suicida, mentre Michele, a sostegno della tesi dell’omicidio, morì pochi mesi dopo, il 15 agosto 1858. Il Possenti ritrae lo strazio dell’occasione funebre con una scena nella quale il figlio morto, guidato come una marionetta dal mostro del male, si avvicina ad una mano, quella del fratello Dante, pronta ad accoglierlo.

Una misteriosa morte

Esposto nella sala 2, è l’unico dipinto che non è ispirato a nessun componimento del futuro Premio Nobel. Si tratta di una personale interpretazione dei fatti legati all’oscura vicenda della morte di dante, fratello di Giosuè, liberamente ricostruita dal Possenti. Nella fascia più alta riconosciamo le emblematiche figure delle “tre scimmiette”: non vedo, non sento, non parlo, che introducono l’osservatore in un’atmosfera di mistero. La fascia più in basso, invece, rappresenta gli esiti di quella tragedia: il Carducci che, con in mano la sua valigia, lascia le colline delle Cerbaie. Al centro il “fattaccio”: sulla sinistra il dottor Michele si scaglia con violenza contro il figlio, un gesto repentino, la cui dinamicità provoca l’oscillazione della luce e la caduta del vicino tavolino. Al centro Dante, colpito a morte, la cui anima è ritratta nell’atto di abbandonare il proprio corpo.